Una voce fuori dal coro
– Maria Luisa Biancotto (2007)
Nel panorama della giovane arte contemporanea, Giacomo Cappello è una voce fuori dal coro, distante dalle nuove produzioni infantiliste neoconcettuali, di derivazione pop o graffitare che fanno
tendenza in questo momento. Distante anche dall’ iperreale, dal multimediale, dalla nuova figurazione, dall’espressionismo intimista e dalle performances eclatanti, aggressive o voyeuriste.
Eglì sceglie di dedicarsi alla pittura e alla pittura soltanto, per trarne la lezione con cui leggere la nostra cultura e la sua tradizione, e come tecnica con cui misurarsi rispetto all’invenzione.
Giacomo Cappello esordisce giovanissimo sulla scena dell’arte: non ha ancora 17 anni, nel 2003, quando inaugura la sua prima esposizione. Ma ha già compiuto la sua scelta di vita: la pittura sarà la suo strada, il suo terreno di ricerca, il suo campo di battaglia, il modo con cui mettersi in gioco. Decide di lasciare la scuola e proseguire, autodidatta, la propria formazione attraverso la lettura dei maestri e lo studio della storia dell’arte. Assimila rapidamente e produce copiosamente, con quell’urgenza che è propria dell’adolescenza: dare, cercare, prendere, mancare, lanciarsi, volare. Pittura come scrittura dell’esperienza, come lettura, come dispositivo di libertà intellettuale.
Lavora con passione, infaticabilmente, muovendosi sicuro con quei materiali che ha imparato a utilizzare fin da bambino, nello studio del padre, orientando tuttavia la sua ricerca in una direzione molto
differente. Fin dalle prime esposizioni Giacomo rivela maturità espressiva, si cimenta con una tavolozza molto ampia di colori, li combina timbricamente, calibra la composizione.
Nelle sue opere iniziali prevale la formulazione astratta, in cui rovelli e fantasmi assumono sembianza giocosa: un puzzle divertito e a tratti insidioso, una sorta di labirinto dove cifre, segnali occhieggiano tra i colori in un caleidoscopico assemblaggio.
Tra queste, la raccolta “Riflessi d’ombra” enuncia già la questione del linguaggio. Nella successiva, “Solo un assaggio”, l’impianto coloristico denso, pastoso, sgargiante, lascia introvvedere ì primi
accenni di uno sviluppo in senso figurale: all’inizio sono forme appena identificabili o stilizzate, poi via via più marcate.
La figurazione in questa fase è ancora un modo dell’astrazione, vale a connotare lo scarto tra il vissuto e il contesto evocato, la nota dissonante, la questione dell’inconciliabile. Elabora sollecitazioni che vengono dal vissuto, dalla propria storia personale. L’opera si situa dunque nel suo percorso come interrogazione, come enunciazione, come disarmante testimonianza, come questione. Nessuna rappresentazione, nessuna finalizzazione, ma un appuntare la vita in itinere, lasciandosene attraversare.
E questa coerenza di impegno la ritroviamo in tutta la sua produzione, declinata in una varietà di registri e di toni, con modalità differenti di stesure cromatica, di impasto, di segno, di composizione, con una grande libertà inventiva. Vengono poi i paesaggi di “Graffiando lo scorza”: paesaggi non realistici, resi con pennellate veloci, macchie di colore o stesure materiche di pigmenti che stigmatizzano momenti, suggestioni, stati d’animo, emozioni. Enunciano la questione dell’inappellabile: è l’approccio alla nominazione. In “Ricordi notturni” cresce la sperimentazione: acquarello, olio, tecnica mista, acrilico su tela ma anche bozzetti e affreschi su muro. Centrale è la figura, in cui condensa scoperte, sorprese, riflessioni, situazioni. Compare l’autoritratto, a volte caricaturale. Figurazioni a carattere fantastico sono le opere della nuova serie “Parodia della vita”, dove cambia lo stile compositivo. A marcare l’espressione, basta un volto, uno sguardo, una postura; a volte è la scelta degli elementi la loro combinazione, altre, sono le tonalità cromatiche.
Qui l’impatto è tra le figure chiare, serene al centro della scena e l’oscurità che le contorna, ma anche una sognante leggerezza che rievoca per associazione la pittura di Chagall, conferendo all’immagine il senso dell’imponderabile. Una ritrovata gaiezze aleggia nelle serie “Racconti… sensazioni”: sempre olio su tela, dove prevalgono tinte solari o figure costruite con semplici accostamenti cromatici, curiose nelle loro insolite posture. I cicli di opere che seguono confermano la vocazione narrativa della pittura di Giacomo Cappello. L’esperienza, prima vissuta con sorpresa, speranza, attesa, comincia a trovare elaborazione nella delusione, nel dolore, nell’insperata riconciliazione, nella voglia di ricominciare, nell’ennesimo smarrimento, nell’improvviso disorientamento, nel lento ritornare, nel comprendere, nel lasciare andare, nell’accogliere, nel gridare. Mai nell’indifferenza, nella banalizzazione. Autentica, la sua ricerca si traduce immediatamente nella formulazione di un idoneo linguaggio. In “Emozionarsi ancora” cambiano le tonalità di fondo: prevalgono spesso il rosso, il giallo, il marrone, l’ocra; varia la definizione delle figure, ma la scena rende immediatamente percepibile il momento, la tensione linguistica, lo sforzo pulsionale.
“Evanescenza dell’essere” propone una serie di opere dai colori molto forti, compare per la prima volta la figura del ragazzo, enigmatico, sospesa. Così come persone appena abbozzate in momenti di riposo o paesaggi dai contorni più fumosi. Qui il bianco che parzialmente avvolge le figure vale ad accentuare l’indeterminatezza, la sospensione, l’indecidibile della condizione esistenziale: è il modo dell’apertura.
Ancora, figure di giovane o di bambino sono proposte, spesso di spalle, nella raccolta “Contrasti armonici”, per metà assorbite dalla parte oscura del quadro, come affiorassero dalla memoria.
Portano tutte un fiore che, incluso nella scena, addolcisce il ricordo, l’evocazione, rafforza la rabbia, contrasta appunto armonicamente con il contesto, lasciando ancora una volta un senso di dolce indeterminatezza, di ambivalenza. E’ il modo della riconciliazione. Nelle due serie più recenti la figura del giovane è centrale. Stilizzata nei contorni, è invece resa in tutta la sensibilità della pelle, nella nudità del corpo. Circondata da un alone scuro, sanguigno e marrone, le mani che coprono il volto, sembra raffigurare una condizione embrionale, l’accingersi alla prova, il vivere qualcosa di cui non c’è esatta coscienza, eppure è percepito come ineluttabile. Ritorna la sensazione di fragilità rispetto a un pericolo incombente e al tempo stesso la voglia di trovare nel sangue che irrora le membra, nel giovane corpo la forza per resistere, la fermezza.
Anche in questa serie la figura del bimbo-adolescente, del giovane enuncia la questione del figlio, in un’accezione non più sacrificale. Le stesse scene con alcune varianti sono riproposte nell’ultima raccolta in una tecnica differente, contenute da un segno che ne definisce i contorni, appaiono più sporche, quasi offese, parzialmente imbrattate. Queste opere ci raccontano che la scena non ha più bisogno del dramma e della tragedia.
E’ un’altra nozione di oscenità che qui si pone, dove non c’è più sofferenza. Il senso della composizione è affidato alla stesura del colore, ai suoi addensamenti, rarefazioni, bagliori, liquefazioni, all’atmosfera che vi si respira, alla postura delle figure, alla tensione dinamica che la anima. E’ il due, qui, a interrogare, per insistere sul corpo. Che sia il corpo della pittura? Nel cimentarsi, anche con i propri rovelli, con l’urgenza di una rinascita, l’autore sfiora la chance dell’ammissione, dell’ironia, dell’apertura, l’incipit di un itinerario felice.